Guardando, in questi giorni, le straordinarie prestazioni degli atleti Paralimpici, mi viene da rivolgermi a chi di mestiere fa l’osservatore sportivo o Talent Scout: prestate attenzione.
Provate a comprendere cosa trasforma davvero un atleta in un campione.
E, consentitemelo, cambiate nome! Perché in quella definizione “Talent” Scout, c’è un errore sostanziale di fondo: non è il talento che dovete ricercare.
Non è il dono innato. Non è la perfezione fisica o la previsione di crescita di un ragazzino sottoposto a esami di ogni tipo, che rischiano di alimentare aspettative inimmaginabili e poi portare a delusioni altrettanto grandi da non poter essere gestite.
Abbiamo così tanti esempi di atleti piccoli, sgraziati, non solo disabili, che riescono ad avere successo in sport nei quali molti uomini e donne con fisici perfetti falliscono, che dovremmo ormai aver compreso che cosa faccia davvero la differenza.
Muhammad Alì, in teoria, non possedeva alcun talento naturale.
Gli esperti di pugilato si basavano su alcune misure fisiche molto specifiche per capire se un atleta potesse avere un futuro. Veniva misurato il pugno, l’allungo, la larghezza toracica e il peso.
In tutti questi parametri lui presentava misure insufficienti. Possedeva una grande velocità, indubbiamente, ma il suo fisico non era quello di un grande lottatore.
A detta degli esperti, tutto il suo modo di boxare era sbagliato: lasciava le mascelle scoperte, non bloccava i pugni con le braccia e con i gomiti e si tirava indietro per schivarli.
Jose Torres, pugile portoricano campione del mondo dei pesi medio-massimi (1965-1966) lo descrive così: “Era come uno in mezzo alle rotaie, che cercava di non farsi travolgere da un treno in arrivo non scappando da un lato o dall’altro delle rotaie, ma correndo all’indietro”.
A parte la velocità, la vera genialità di Muhammad Alì, stava nella mente. Nel suo cervello, non nei suoi muscoli.
Prima di sfidare Sonny Liston, studiò ogni dettaglio del suo avversario. Non studiò solo il suo stile di combattimento, ma osservò attentamente che tipo di persona fosse al di fuori del ring.
Lui stesso dichiarò:
“Lessi tutte le sue interviste; parlai con le persone che lo avevano frequentato. Me ne stavo coricato sul letto, mettevo insieme tutte quelle informazioni e riflettevo, cercando di capire come lavorava la sua mente”.
“Liston doveva credere che io fossi pazzo. Che fossi capace di fare qualsiasi cosa. Di me non poteva vedere nient’altro che la bocca e quello era tutto ciò che io volevo che vedesse”.
E vinse. Contro ogni previsione, contro ogni logica del talento innato e delle doti fisiche. Vinse, dimostrando a tutti noi che la vittoria viene dalla testa, non dai pugni. Viene dalla grinta, dal duro lavoro quotidiano, dalla fatica, dalla capacità di superare gli ostacoli, di concentrarsi, di analizzare le situazioni, di credere in un obiettivo.
Non alimentiamo la cultura del talento innato, perché presuppone che chi ha talento non debba faticare, la fatica e lo sforzo sono per gli altri, per quelli meno dotati, che non ce la faranno mai. Il talento naturale non chiede aiuto, sarebbe un’ammissione di debolezza. Così facendo però, il “talento innato” non analizzerà mai le proprie debolezze (e, credetemi, ne ha anche lui), e non si eserciterà per eliminarle. In fondo, la sola idea di avere delle carenze, è terrificante per lui.
Impariamo invece dalle Paralimpiadi, dai questi atleti straordinari e dalle loro storie di resilienza.
Cerchiamo e alimentiamo la motivazione intrinseca nei nostri ragazzi, la loro motivazione, non quella dei genitori, chiediamo quali sono i loro sogni e quanto sono disposti a lavorare sodo per realizzarli; chiediamo perché quello specifico sport e cosa rappresenta per loro, ascoltiamoli, non limitiamoci solo a misurarne il “talento ”.
Aiutiamoli a crescere con l’idea che è l’impegno a portare i risultati, non il dono innato che solo qualcuno, più fortunato, può avere, senza fare sforzi.